Ciò che conta è il riflesso



I miei genitori non mi guardavano mai negli occhi. Gli occhi sono lo specchio dell'anima, dicono, ma c'era un solo tipo di specchio che mamma e papà amavano – quello tradizionale. Qualsiasi superficie riflettente andava bene per loro, per questo casa nostra era piena di specchi – specchi interi, specchi al muro, specchi rotondi, ovali e quadrati, con e senza cornice – e pagavano i domestici fior di quattrini perché facessero splendere ogni oggetto della nostra casa.


Vivevamo in quella che io chiamavo “serra”, perché era quasi interamente fatta di vetro, una villetta a tre piani con piscina e vista su un lussureggiante giardino di cui si occupava qualcun altro. Non avevamo animali, né io avevo fratelli. Eravamo io, mamma, papà e gli specchi.


I miei erano sempre impeccabili: la mamma si vestiva solo di verde per mettere in risalto i capelli, rossi come il vino e tanto morbidi da sembrare liquidi; papà metteva sempre la cravatta e dovunque andasse spargeva il suo profumo pungente ed estasiante. Non so a cosa servisse in casa il profumo, o la cravatta, o l'essere impeccabili, ma tanto i miei non c'erano quasi mai.



Forse per ripicca nei loro confronti, forse per un odio spontaneo e viscerale, io evitavo gli specchi come la peste. Immagino sia facile per chi è bello come i miei genitori divinizzare la propria immagine, ma la natura non era stata altrettanto generosa con me e mi aveva regalato una naturale predisposizione all'acne e un naso arcuato che mi adombrava i denti quando sorridevo. Mi vestivo sempre di nero, indossavo gli occhiali da sole anche di sera e non mi piaceva truccarmi, né mettermi lo smalto o il profumo.


A me piaceva giocare a rugby. I miei genitori avevano provato più volte ad iscrivermi a danza, ma non partecipavo mai alle lezioni e dopo un po' si erano stufati di provare a rendermi femminile e si erano decisi a lasciarmi fare ciò che volevo. Avevano di meglio da fare che preoccuparsi della loro unica figlia, e così avevano messo a tacere la lagna.


Le nostre conversazioni erano sempre molto brevi. Ogni tanto papà, mentre eravamo a tavola, chiedeva “Come va a scuola?” e io rispondevo “Tutto bene” mentre mamma studiava i suoi occhi riflessi nel cucchiaio. Mi capitava di intravedere il mio naso esagerato nella posata e distoglievo lo sguardo all'istante, ma subito gli altri piatti e i bicchieri erano pronti a restituirmi l'immagine bestiale del mio viso in venti angolazioni diverse. Avevo l'impressione che me lo facessero apposta, per rinfacciarmi la mia bruttura e ridere alle mie spalle. Così non mi restava altro da fare che consumare in fretta la mia cena e ritirarmi nella mia cameretta coi mobili in legno e le pareti tappezzate di poster. A volte, al posto della solita risposta lapidaria, dicevo a mio padre l'ultimo buon voto preso e lui ribatteva “Brava. Dopotutto ho sempre detto ai professori di darti un occhio di riguardo.” Poi aggiungeva, dopo averci pensato un attimo: “Ma non ti aspetterai mica un regalo! Stai compiendo solo il tuo dovere. Che non si dica in giro che mia figlia non ha una pagella impeccabile.” E la mamma confermava con un “Già, ha ragione tuo padre”. Una volta provai a mentire riguardo un compito di latino andato malissimo. Dissi che avevo preso il massimo, per provare l'ebbrezza di fingere e scamparmi il rimprovero, o forse perché inconsciamente speravo di essere scoperta, ma i miei non si accorsero che avevo detto una balla e la scena si ripeté identica a tutte le altre. Quella sera mi alzai da tavola prima del solito.



Dovevo ringraziare il rugby per tante cose, prima fra tutte la voglia di studiare. Volevo prendere la borsa di studio per un'università dove avrei potuto giocare e così evitai di smettere di studiare per una sorta di vendetta contro i miei, cosa che sarebbe di sicuro successa altrimenti. In secondo piano dovevo ringraziare il rugby perché mi trasportava in un mondo fatto di persone normali, meno scintillante e più divertente di quello che avevo conosciuto nascendo nella mia famiglia. Era grazie al rugby che avevo degli amici e anche una cotta, come tutte le ragazze della mia età: ero infatti segretamente innamorata del mio allenatore, che aveva una ventina d'anni ed aveva smesso di giocare a causa di un infortunio. Lo ammiravo moltissimo, ma la verità è che ero attratta dalle sue labbra troppo grosse. Mi ricordavano il mio naso.



Una volta la mia squadra vinse il torneo e il trofeo fu dato a me, che ero il capitano, perché lo tenessi qualche settimana e lo passassi poi a turno alle mie compagne. Lo collocai nel salotto, la stanza più lucida e sfarzosa della casa, su una lunga mensola in vetro opposta al tavolo. Quella sera stessa i miei invitarono un po' di gente a casa, compreso il mio allenatore, perciò decisi di presentarmi al massimo della forma e chiesi aiuto alla mamma per mettermi lo smalto sulla mano destra e truccarmi gli occhi: lei si dimostrò entusiasta di darmi una mano e mi regalò anche un suo vestito firmato – uno dei pochi che mi davano un po' di respiro. Ne avevo provati tantissimi e ogni volta mi era sembrato di essere stata avvolta nella pellicola da imballaggio. Finalmente però ne avevo trovato uno che mi piacesse, con la schiena scoperta e la gonna lunga a coprire le mie gambe tozze. Mamma mi fece sistemare anche i capelli e alla fine le ero quasi grata per avermi aiutata.


Ad un certo punto si avvicinò al mio viso, mi accarezzò i capelli e mi sussurrò: "Imparerai presto che non importa quello che hai dentro, ma come ti vede la gente. Sono le tue amicizie a decidere il tuo destino e perciò è fondamentale presentarsi bene. Ricorda, ciò che conta è il riflesso". Non so se fosse vero, ma allora ci credetti, anche perché quello era il consiglio più sincero che mia madre avesse mai elargito.



Quella sera gli specchi sembravano miei amici. L'adolescente un po' robusta e piena di brufoli aveva lasciato il posto ad una donna con curve sensuali e un paio di penetranti occhi azzurri. Mi sembrava addirittura che il mio naso deforme avesse un che di affascinante. Le superfici riflettenti del salotto restituivano, anzi esaltavano l'immagine di una principessa bella e sicura di sé e il mio trofeo troneggiava su quasi ogni parete. Dico quasi perché la parete della mensola su cui esso era poggiato ospitava un famoso quadro che aveva comprato a suo tempo mio nonno e valeva milioni di euro. Gli ospiti sembravano gradirlo molto, così mamma e papà lo avevano lasciato lì. Era l'unico accessorio opaco della casa.

Quella sera fu tutto un “Sei stupenda!”, “Ma come sei cresciuta!”, “Quasi non ti si riconosce!” reazioni che in altre circostanze mi avrebbero fatta arrabbiare di certo, ma ero tanto orgogliosa di essere sul piedistallo per una volta che nulla avrebbe potuto turbare il mio buon umore. I miei genitori finalmente riconoscevano uno dei miei successi! E comunque, il mio allenatore fu l'unico a farmi i complimenti per la vittoria di quella mattina. Mi chiese se volevo provare a giocare in serie D e io accettai senza pensarci due volte. Ogni suo complimento valeva più di tutti quelli degli ospiti. Oh, il suo sorriso! Chissà se mi trovava carina o era solo orgoglioso dei miei progressi. In ogni caso mi trattava da adulta e questo mi piaceva.





Papà ci raggiunse accanto al tavolo e il mio Chanel N.5 si fuse col suo profumo pizzicandomi il naso. Mi circondò le spalle con un braccio mentre con l'altro reggeva un bicchiere di vino. “Compro la vostra società” annunciò al mio allenatore prima che potessi comunicargli la mia entrata in serie D. Avrebbe trovato un allenatore con più esperienza e procurato alla mia squadra divise “decenti”. “Dato che mia figlia ha questa passione, tanto vale sfruttarla al massimo!” commentò con una risata che probabilmente voleva sembrare cordiale.


Non ebbi il tempo di elaborare una reazione perché nel frattempo degli operai entrarono in salotto reggendo un lungo specchio da parete, rettangolare, con una cornice d'oro tempestata di smeraldi e rubini. “Non sono proprio i miei colori?” squittì la mamma attorcigliandosi una ciocca di capelli al dito. Il rumore dei suoi tacchi a spillo mentre si dirigeva verso il trofeo annullò ogni altro rumore nella mia testa, compreso il fragoroso applauso che si era diffuso fra gli ospiti all'entrata in scena del vero protagonista della serata. Una domestica si affrettò a sgombrare la mensola dal resto e la mamma venne verso di me con il mio amato premio fra le mani, studiandolo come se venisse da Marte, le labbra storte in una smorfia. Lo sbatté contro il petto del mio allenatore e gli intimò: “Se ne liberi. E' una nota stonata di mediocrità e toni troppo accesi in questa casa.” Gli fregò il bicchiere di vino bianco che teneva in una mano e lo trangugiò in un sorso.
“Ma l'abbiamo vinto noi!” obiettai. Mamma si limitò ad alzare un sopracciglio e papà rispose per lei: “Tesoro, quel tuo trofeo graffierebbe lo specchio nuovo. Sarebbe un peccato dopo aver invitato tutta queste gente per vederlo!” Si allontanarono senza dire altro e raggiunsero gli ospiti di fronte al nuovo gioiello per lodarne la spettacolarità.

Mi sentivo svuotata. Ancora una volta l'ego dei miei genitori calpestava il mio e lo specchio nuovo mi mostrò la solita immagine, una ragazza col fisico di un toro e i tratti maschili su cui stonava il rossetto troppo intenso. Una ragazza col naso troppo grosso e lunghe rughe nere disegnate dal mascara colato. Provavo pena nei suoi confronti, solo un'infinita pena: non c'era speranza per lei. La guardai afferrare il trofeo dalle mani del ragazzo accanto a lei, correre, caricare e poi scagliare l'oggetto davanti a sé. La coppa sfiorò le teste dei miei genitori e andò a conficcarsi nel loro nuovo acquisto, frantumandolo in mille pezzi con un rumore acuto e agghiacciante.

Un silenzio di shock e imbarazzo si allargò in sala. Ci volle un po' prima che i presenti abbassassero le braccia poste sulle teste a mo' di scudo e capissero che ero stata io a sgretolare quell'incantesimo di perfezione opulenta. Mi concessi una risata liberatoria.


Finalmente, in casa mia c'era uno specchio in meno.






⧫ Ciò che conta è il riflesso 

Hikari

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